La risposta israeliana alla minaccia Covid-19

Il primo caso di Covid-19 in Israele è stato registrato il 21 febbraio scorso. La “paziente zero” era una donna di ritorno da una crociera sulla nave Diamond Princess. Dopo aver imposto la quarantena a chiunque avesse visitato paesi dell’Asia orientale, lo stato di emergenza è stato proclamato dal Primo ministro ad interim, Benjamin Netanyahu, lo scorso 19 marzo – in condizioni peraltro straordinarie anche dal punto di vista politico, data l’assenza di un governo vero e proprio. Le ultime elezioni, infatti, non hanno consegnato una maggioranza a nessuna delle due principali fazioni politiche (il Likud, il partito di Netanyahu, e Kahol Lavan, guidato dal Benny Gantz) e perciò la maggior parte dei provvedimenti in atto sono stati approvati per decreto e in deroga al parlamento israeliano, in base a uno stato di emergenza che in effetti risulta essere attivo fin dal 1948.

Israele è però riuscito velocemente a contenere il contagio attraverso misure di distanziamento sociale restrittive che includono, tra le altre, la chiusura delle frontiere, il divieto per i cittadini di uscire di casa se non per estrema urgenza – e comunque, in un raggio non superiore a 100 metri dalla propria abitazione – e la riduzione di circa l’80% dei lavoratori dipendenti presenti sul posto di lavoro. Il totale dei casi attestati finora è di circa sedicimila positivi e 281 morti (la maggior parte nella fascia d’età over-60) su un totale di 8.8 milioni di abitanti, una percentuale relativamente bassa rispetto, ad esempio, alle nazioni europee più colpite dalla pandemia.

Una delle principali ragioni di questo risultato è stata il riutilizzo di sofisticati sistemi di spionaggio e di anti-terrorismo – finora per lo più utilizzati per monitorare gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza – per mappare anche gli spostamenti dei cittadini israeliani. Questa scelta ha, in sostanza, determinato il coinvolgimento dei servizi segreti interni (Shin Bet) e dei servizi d’intelligence (Mossad) nella “battaglia contro il nemico invisibile”, come definita nelle parole di Netanyahu e di quelle del ministro della Difesa, Naftali Bennet. La “securitizzazione” della risposta alla pandemia, che viene appunto paragonata ad una guerra vera e propria, non è quindi avvenuta soltanto a livello retorico, ma si è manifestata anche nelle azioni intraprese dal governo per fronteggiare la nuova pandemia. Dal 15 marzo, infatti, lo Shin Bet e le forze di polizia hanno sfruttato i metadati dei cellulari (ai quali già avevano accesso da un ventennio per motivi di sicurezza) per coadiuvare le autorità sanitarie, identificando tramite un dispositivo di geo-localizzazione gli individui entrati in contatto con persone infette e imponendogli la quarantena.

Il coinvolgimento del Mossad è stato invece involontariamente reso noto in tempi più recenti. A seguito dell’annuncio che rendeva noto il fatto che il ministro della Salute, Yaakov Lizman, era risultato positivo al Covid-19, un gran numero di esponenti politici che erano entrati in contatto con il ministro, tra cui Netanyahu, sono entrati in quarantena volontaria. Tra questi, il nome che ha destato maggiore scalpore è stato quello di Yossi Cohen, a capo del Mossad. Appariva infatti strano che Cohen fosse stato a stretto contatto con il ministro della Salute, visto che la nota agenzia di intelligence israeliana si occupa per lo più di operazioni sotto copertura all’estero e i suoi interessi non potrebbero essere più lontani da quelli del servizio sanitario nazionale.

Yossi Cohen, Direttore del Mossad

Tuttavia, lo scoppio della pandemia ha inevitabilmente modificato le priorità dei famosi servizi segreti israeliani: infatti, dal momento che l’Iran, uno dei primi paesi ad essere colpiti dalla pandemia, costituisce una minaccia meno pressante alla sicurezza israeliana, il Mossad ha impiegato i propri mezzi per reperire attrezzature mediche di cui lo stato era a corto (forse, anche a causa delle risorse che Israele destina al servizio sanitario, al di sotto della media dei Paesi Ocse) apparentemente dalle vicine nazioni arabe, che attualmente non detengono rapporti diplomatici con Israele. Pare che il Mossad abbia quindi sfruttato il proprio network internazionale per ottenere test, ventilatori e mascherine e che si sia anche occupato direttamente della loro distribuzione, oltre che assistere le forze di polizia nel rafforzare le misure di distanziamento e assicurarne il rispetto da parte dei cittadini. Inoltre, sembra che l’intelligence israeliana si sia impossessata di attrezzature che erano già state ordinate da altri paesi, in linea con l’ethos, proprio del Mossad, di raggiungere gli obiettivi designati a qualunque costo. Il primo carico – formato da circa centomila test – è arrivato in Israele il 19 marzo, seguito poi da successive spedizioni contenenti 1.5 milioni di mascherine chirurgiche, migliaia di maschere N-95, tute e occhiali protettivi per medici e infermieri. In questo modo, lo Stato ebraico è riuscito ad ottenere le risorse necessarie per fronteggiare anche lo scenario peggiore di diffusione del virus.

L’unica falla nel sistema è rappresentata dalle affollate comunità ebraiche ultra-ortodosse, che faticano a rispettare le stringenti disposizioni governative. Gli abitanti delle aree ultra-ortodosse, infatti, hanno rispettato tardi e controvoglia il divieto di assembramenti all’interno di sinagoghe e yeshivas e, ad oggi, anche se gli haredim costituiscono solo il 12% della popolazione israeliana, essi rappresentano circa la metà dei pazienti Covid-19 ospedalizzati. Lo stesso Litzman, ministro della Salute e rappresentante della fazione ultra-ortodossa a livello parlamentare (United Torah Judaism), è stato accusato di di essere entrato in contatto con il virus perché aveva violato le misure di distanziamento sociale. L’apparato statale ha risposto rinforzando i meccanismi di controllo in tali comunità, costringendole al totale lockdown: per esempio, nella comunità haredim di Bene Bark, a pochi passi da Tel Aviv, sono attualmente dispiegati centinaia di soldati, che si occupano non solo di supervisionare il rispetto delle normative governative, ma anche di distribuire cibo e di assistere i medici con i test.

Yaakov Litzman, ministro della Salute israeliano

La tendenza alla “securitizzazione” si può sicuramente annoverare tra i tratti distintivi della cultura politica israeliana e deriva sopratutto dalla fama di cui godono l’apparato militare e i servizi di intelligence nazionali, conosciuti a livello internazionale per la loro efficienza ed efficacia nel compiere missioni di interesse nazionale ritenute di importanza cruciale, e dalla retorica impiegata dai leader israeliani dal 1948 ad oggi, che pone l’accento sulle diverse minacce alla sicurezza nazionale e sulla loro imminenza per giustificare azioni e disposizioni eccezionali, come il mancato rispetto del diritto alla privacy e le limitazioni apposte alle libertà individuali. Inoltre, in uno Stato fortemente militarizzato, in cui le avanzate tecnologie militari vengono spesso reimpiegate per scopi civili, non era difficile prevedere che il governo avrebbe risposto alla pandemia rafforzando le tecniche di controllo già esistenti per salvaguardare lo stato di salute della propria collettività, anche a discapito delle libertà individuali. La pandemia ha pertanto rafforzato degli elementi identitari della politica israeliana, tra cui il ruolo centrale e irrinunciabile di un apparato di sicurezza presente a livello internazionale e tecnologicamente avanzato e, quindi, anche una certa debolezza delle proprie istituzioni democratiche e delle misure di salvaguardia della sfera privata.

Tuttavia, dal momento che l’apparato militare e di intelligence gode di ampia fiducia da parte dell’opinione pubblica israeliana, la maggior parte dei cittadini (circa il 55%) si ritiene soddisfatta del loro operato, e non ritiene che gli strumenti di data-collection utilizzati per contenere l’epidemia verranno sfruttati nel futuro post-coronavirus anche se, finora, sono stati utilizzati per circa vent’anni, a loro insaputa.

Melania Malomo